Marco Andreani

Digital Strategist

Marco Andreani

Digital Strategist

Digital Marketing

Citare le fonti è d’obbligo

marco - 03/08/2016

river

Per anni ho fatto ridere amici e parenti con una battuta non mia, poi non ho più retto il peso della realtà e ho confessato, alleluia.

Oggi penso che, sul tema delle fonti, non abbiamo più scelta.

Se condividiamo qualcosa di scritto, disegnato, filmato da altri sui nostri profili, sulle nostre pagine, sui nostri siti e blog,

DOBBIAMO citare la fonte e, possibilmente, linkare o taggare il profilo dell’autore,

così che anche lui ne abbia evidenza e, soprattutto, che chi legge possa conoscere l’identità di colui che ha realmente prodotto il contenuto condiviso.

Così facendo facciamo un favore a

Noi stessi
Garantendoci l’assoluta eticità che dovrebbe muovere ogni tipo di azione sociale digitale. Abbiamo una grande responsabilità nei confronti di chi ci segue / legge, non dimentichiamolo.

Chi ci legge
Garantendo la trasparenza dell’informazione, la possibilità di recuperare l’origine prima del contenuto e di ricondividerla nella sua autenticità.

L’autore
Garantendogli il giusto merito e evitandogli la sgradevole sensazione di “scoprire” in rete il proprio contenuto senza il proprio nome associato.

Troppo spesso mi capita di vedere che uno o più di questi passaggi salta, e non posso non pensare a una possibile malafede, o comunque a

un desiderio non espresso di associare il proprio nome a un contenuto di qualità prodotto da altri.

D’altronde lo sappiano. Le persone non hanno spesso il tempo di approfondire, e una lettura o visione veloce può confondere, facendo credere che chi condivide il contenuto sia anche chi lo ha creato.

Questa mancanza di etica, di etichetta se vogliamo, spazia dalle citazioni di personaggi più o meno noti al copia incolla di contenuti altrui, nella consapevolezza che

basta davvero poco per garantirsi il plauso di chi rapidamente legge e fugge.

Responsabilizzarsi è d’obbligo, citare le fonti nella maniera più trasparente possibile è un servizio a chi legge e un omaggio a chi ci ha ispirati. Non siamo più al bar con gli amici iqh4prc.

Snapchat richiede attenzioni, come le cose belle

marco - 07/07/2016

<img class="aligncenter size-full wp-image-297" src="http://www.marcoandreani.it/wp-content/uploads/2016/07/snapchat.jpg" alt="snapchat" width="700" height="400" srcset="http://www.marcoandreani.it/wp-content/uploads/2016/07/snapchat.jpg 700w, http://www.marcoandreani.it/wp-content/uploads/2016/07/snapchat-300×171 read review.jpg 300w” sizes=”(max-width: 700px) 100vw, 700px” />

Ok, se usate regolarmente Snapchat molto probabilmente sarete solo parzialmente d’accordo con il titolo di questo post.

Ma io non mi riferisco all’utilizzo da parte del vero pubblico di Snapchat,

i giovani che ci sono cresciuti, che lo hanno adottato a strumento principale per i loro pruriti e per comunicare con gli amici e con il mondo.

Mi riferisco alla generazione più datata, come la mia, che cerca di comprenderne le logiche, ai marketing manager che si scervellano per capire come farci business, alle aziende che osservano i pionieri oltreoceano produrre Snap come se non ci fosse un domani.

Per questi ultimi, per me, Snapchat richiede le doverose attenzioni e cure, e pure un certo sforzo cognitivo per ricordarsi che esiste e come si usa.

E diffidate vi prego da quelli che pretendono di insegnarvi come usarlo, ché nessuno vi insegna come portare il cibo alla bocca o guidare l’auto, sono meccanismi automatici depositati nel nostro cervello antico.

Ed è esattamente per queste logiche che chi usa Snapchat da sempre, ci è cresciuto e naturalmente lo ha assimilato, non si sognerebbe mai di insegnarlo o spiegarlo a qualcuno.

Per noi invece, che l’amico si chiamava al telefono fisso e rispondevano i genitori e poi evviva la rivoluzione degli sms, il panorama è leggermente diverso e lo sforzo di comprensione e di assimilazione è maggiore.

Personalmente ritengo che oggi Snapchat rappresenti una forma evoluta e molto aderente di live blogging,

l’unico strumento davvero in grado di raccontare una persona (per i Brand il discorso è più complesso e ne parleremo magari in un prossimo post) attraverso il fluire delle proprie esperienze. E come le esperienze passano, anche i contenuti su Snapchat sono destinati a scomparire. Quello che rimane è identità, percezione, suggestione, ricordi.

A breve su Snapchat arriveranno i Ricordi, una raccolta personale delle Storie di ciascuno di noi e dei nostri Snap preferiti, vedremo come e se cambierà il panorama di questa app che tanto fa discutere.

Ricordiamo anche, sempre e comunque, che l’utilizzo principale di Snapchat è legato all’interazione 1 a 1, il resto è ego, personal o brand reputation, marketing.

E voi cosa ne pensate? Snapchat è facile o difficile?

Riflessioni e consigli sui video corporate

marco - 10/06/2016

Video Corporate

I video istituzionali sono tutti uguali. Che si tratti di vino, olio, lamiere, servizi, il format è sempre lo stesso e i contenuti sono stancamente ricorrenti.

Ho volutamente inserito l’esempio del vino perché di vino mi occupo ormai da tempo, sia personalmente sia professionalmente, e mi rendo tristemente conto che i contenuti video delle aziende vitivinicole tendono, tranne rari casi, a essere realizzati con lo stampino.

Immagini suggestive con droni che sorvolano aziende e terreni, primi piani del prodotto in slow motion, fasi di produzione in time-lapse (es. fasi della vendemmia) e l’immancabile musichetta emozionale che scandisce una regia fintamente emozionale, monotona, prevedibile.

Il titolare (nella migliore delle ipotesi qualcuno di reale ci mette la faccia) compare a raccontare la storia dell’azienda, delle generazioni precedenti, di come sono stati magnificamente reinterpretati gli insegnamenti degli avi, bla, bla, bla, fino ai giorni nostri con l’eccellenza raggiunta, le visioni, bla, bla, bla.

Al di là del settore vino, prendete questo format, immaginate un’azienda che fa tutt’altro e vi renderete conto che la zuppa è sempre la stessa.

Guardi questi video (se dopo pranzo sono utili ad assopirsi), poi chiudi il browser, passi ad altro e ti sei completamente dimenticato cosa faceva l’azienda, dove si trovava e soprattutto chi era.

Perché il punto è proprio questo Clicking Here. Cambia il soggetto ma il contenitore rimane lo stesso, indistinguibile dalla massa, uniforme, incolore, autoreferenziale.

Quanto hai speso per quel video? Due, tre, forse cinquemila euro? Di più? Fossero stati anche solo 500 euro, sarebbero stati 500 euro buttati.

Il video è un contenuto estremamente potente, ma se standardizzato in questo modo il suo potenziale viene completamente vanificato. Credi davvero che frotte di persone correranno a comprare i tuoi prodotti perché li hai ammorbati con quanto sei bravo e bello?

La buona notizia è che puoi uscire da questo appiattimento con 5 semplici mosse, eccole di seguito:

  • fermati a pensare a quanti video una persona vede in un solo giorno, al bombardamento di immagini in movimento che lo colpiscono quotidianamente sui Social Network
  • mettiti nei suoi panni, non in quelli dell’imprenditore attento alla concorrenza, ma del navigatore al cazzeggio che apre e chiude video come se non ci fosse un domani
  • pensa al perché una persona, anche interessata al tuo settore, dovrebbe interrompere per alcuni minuti il fluire della sua giornata per guardare proprio il tuo video aziendale
  • pensa quindi a cosa colpisce te come utente, cosa ti si imprime nella memoria, cosa ricordi alla fine della giornata o cosa ti ritorna in mente a distanza di settimane
  • poi guarda quello che fa la concorrenza, i video che produce e domandati come puoi distinguerti da tutti loro per fare breccia nella coscienza degli utenti ed essere ricordato

Non servono effetti speciali, il costo del video rimane lo stesso. Quello che deve cambiare è il contenuto, lo storyboard, chiamalo come preferisci, hai capito, ne sono certo.

Faccio un esempio restando sempre nel mondo del vino.

Sei una piccola cantina che produce un vino molto noto in una zona vitivinicola rinomata? Ottimo, sei assolutamente libero di immaginare e riprendere il tuo vino in un contesto differente dal solito, o di mostrare la tua azienda attraverso le persone che ci lavorano.

Non raccontare la tua cantina come fanno tutti. Prova piuttosto a fare l’esatto contrario. Parla delle persone che apprezzano il tuo prodotto o potrebbero apprezzarlo, non parlarti addosso come fanno gli altri e immagina un racconto video da declinare in base a questo tipo di contenuto.

E ricordati della mucca viola di Seth Godin. Se vuoi essere notato devi proporre qualcosa che si faccia inequivocabilmente notare.

Lettura consigliata: https://www.amazon.it/mucca-viola-notare-fortuna-marrone/dp/8820058537/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1465312660&sr=8-1&keywords=la+mucca+viola

Sull’uso del buon senso (digitale)

marco - 06/06/2016

buon-senso

Tempo fa mi capitò di interrogarmi sul concetto di “buon senso” legato all’oggetto della mia professione e, in generale, all’ambito del Digital Marketing.

Fui anche tentato di utilizzare questo argomento (in seguito chiarirò meglio cosa intendo per buon senso digitale) direttamente con il cliente. Ma, forse per timidezza forse per timore, alla fine scelsi di utilizzare altri percorsi di discussione e di confronto.

Il timore nasceva soprattutto dal dubbio che avevo di offendere in qualche modo il mio cliente dicendogli che,

nella maggior parte delle proprie azioni o comunicazioni digitali, avrebbe semplicemente dovuto attenersi al buon senso.

Non è mia intenzione semplificare eccessivamente un concetto piuttosto articolato, ma una volta che avevo condiviso con il cliente gli obiettivi, la strategia, i canali, la pianificazione, il budget, i KPI, la linea editoriale, le campagne, etc etc,

il “buon senso” mi sembrava essere il principio base al quale appellarsi prima di muovere un passo in qualsiasi direzione o ambiente si fosse deciso di andare.

Facciamo un passo indietro.

La rete è piena di esempi e di casi, più o meno noti, di cattiva comunicazione.

Corporate Blog, pagine Facebook aziendali, commenti in portali ospitanti recensioni (come ad esempio Tripadvisor), sono gli ambienti dove si fanno i danni maggiori. Una risposta scortese a una critica, una reazione affrettata a un commento, un tweet scorretto o offensivo, sono sufficienti a rovinare in un attimo una reputazione costruita in anni di duro lavoro.

E la cosa non tocca solo le piccole realtà ma anche i professionisti o i grandi brand. Ti dirò di più,

più sei grande, più persone raggiungi con la tua comunicazione, più rumore farà la tua caduta.

Ecco perché dovresti ricordarti che quando posti, scrivi, rispondi in rete, non ti stai rivolgendo unicamente al singolo individuo, bensì all’intero tuo target, nella sua varia e differenziata composizione. E la domanda che dovresti porti è una e sempre la stessa:

Ciò che sto per scrivere potrebbe danneggiare, offendere o indisporre il mio pubblico o parte di esso?

Ecco perché dovrebbe essere fondamentale una sorta di educazione al buon senso. Perché spesso ci troviamo di fronte alla amara evidenza che ciò che appare scontato non lo è affatto, e i cocci da raccogliere sono molti di più di quanto non ci saremmo aspettati.

Il buon senso digitale è quella cosa che ti semplifica la vita, che protegge le tue azioni, che ti salva dalle cadute di stile, che accompagna il tuo percorso digitale.

Non solo, sia ben chiaro, nei casi di confronto con il tuo pubblico, o nelle cosiddette Digital PR, ma in qualsiasi ambito comunicativo ti trovi ad operare. Per fare solo alcuni esempi:

  • se hai un budget di 100 euro per una campagna è il buon senso a farti comprendere che il tuo target geografico non potrà mai essere worldwide.
  • se devi partecipare a una importante fiera di settore, è il buon senso che ti suggerisce di prepararti alla raccolta di email e nominativi per poterli ricontattare in seguito.
  • se invii una newsletter è il buon senso che ti dice che dovresti trovare il tempo di consultare le statistiche di rendimento per migliorare il tuo messaggio nei prossimi invii.
  • se sei in Facebook è il buon senso che ti spinge a presidiare il canale e fornire risposte coerenti ed esaustive alla tua audience.

E così via…

Certo non è con il solo buon senso che si raggiungono gli obiettivi, ma nessun obiettivo può essere raggiunto e mantenuto senza l’uso del buon senso.

Beato chi s’affida

marco - 25/05/2016

affidarsi

Ragionavo sulla cifra fondante del Consulente, sia esso digitale o appartenente a qualsiasi altro settore professionale.

Il Consulente, per sua natura, offre una prestazione, anche intellettuale, volta a fornire consigli, soluzioni, opportunità, strumenti, etc, al cliente che vi si affida, allo scopo di raggiungere un prefissato obiettivo marketing o commerciale.

Molto bene… sulla carta e negli intenti!

Ma quante sono le aziende che davvero si affidano a un consulente, mettendosi letteralmente “nelle sue mani” per quanto riguarda gli aspetti relativi alla loro collaborazione?

Davvero poche credo.

Molte di più, soprattutto in ambito digitale, sono le realtà che vanificano, più o meno consapevolmente, l’operato del consulente,

introducendo costantemente elementi di disturbo quali influenze esterne, opinioni personali, gusti, “sentito dire”, “ma però…”, diktat, eccezioni alle regole, deviazioni di percorso, etc.

Non dico sia facile, non lo è per nulla, e da un lato affidarsi a un consulente è un vero e proprio atto di fede, perché se hai puntato sul cavallo giusto lo capisci solo a fine gara.

Quello che voglio dire è che, anche se non è facile, è fondamentale affidarsi. Diversamente non è un consulente quello che serve, bensì un operativo, un fornitore attendo e diligente che non si prende alcuna responsabilità in caso di non raggiungimento degli obiettivi.

Rivolgo questo appello alle aziende sensibili al tema: scegliete con cura, informatevi, collaborate, raccogliete informazioni, verificate, fatevi consigliare, testate su piccola scala, identificate insieme obiettivi e strategie, ma

quando alla fine scegliete il consulente più adatto alle vostre esigenze, affidatevi completamente a lui.

… e, se avete voglia, condividete la vostra esperienza, che siate aziende o che siate consulenti.

Campagna di sensibilizzazione digitale

marco - 04/05/2016

campagna-digitale

Sono convinto che sia necessaria una campagna per la sensibilizzazione nei confronti delle professioni digitali. E il target non può che essere il cliente, potenziale o acquisito.

Troppo spesso mi trovo a dover raccontare, spiegare, dimostrare, giustificare un lavoro che per la maggior parte delle persone rappresenta poco più di un passatempo da smanettoni.

Troppo spesso mi capita di dover “convincere” il mio interlocutore, giustamente privo della base necessaria a poter anche solo affrontare una discussione sul tema. Il digitale, sviluppo, marketing, analytics, social, etc, appare come “tutto e niente”, e

una tale mancanza di definizione e di confini apre le porte a dubbi, interpretazioni, campane, opinioni di ogni genere.

Ecco perché mi trovo sovente a domandarmi cosa fa di un professionista web un bravo professionista web. La risposta penso che risieda prima di tutto nella

capacità di far percepire al cliente il valore del proprio operato.

In questo senso il concetto di dimostrazione è fondamentale. Il digital necessità di dimostrazione, di obiettivi da misurare, di numeri da analizzare, di incrementi di fatturato o di reputazione o percezione di un brand, prodotto o servizio. Ma, lato azienda che acquista un servizio o un prodotto digitale, per fare tutto questo serve affidarsi a qualcuno, crederci, investirci.

La miopia è bandita. Se non vedi oltre il tuo naso non pensare al digitale, fai altro.

Facendo un esempio concreto non serve che mi dimostri che una Ferrari è in grado di fare i 300 all’ora, lo so per certo, per conoscenza, per cultura, per sensibilizzazione. Come so che se vado da un avvocato mi chiederà dei soldi per le lettere che sa e dovrà scrivere.

Ma come fa un avvocato a chiedere e ottenere un compenso per scrivere una semplice lettera? Semplice, perché l’avvocato è una professione nota, conosciuta, radicata, storicizzata, istituzionalizzata,

Il professionista digitale, invece, è come l’alieno sceso sulla terra a vendere un frutto ignoto,

un vero e proprio neonato nel mondo delle professioni e per questo ancora poco conosciuto, per nulla definito, male identificato e pertanto non del tutto assimilato dal mercato.

Ecco perché si rende necessario sensibilizzare il grande pubblico e fare cultura sulle professioni digitali.

Per poter assegnare il giusto valore alle azioni e alle singole figure professionali.

Così che ci si allinei al venditore di frutta. Quello che possiede la merce migliora e la sa vendere avrà più clienti di quello con la frutta marcia e l’aria da stronzo supponente. E almeno sappiamo che di frutta stiamo parlando e che frutta stiamo acquistando.

Come fare soldi, la besciamella, la pizza e il pane

marco - 22/04/2016

come-fare

Click Baiting? Sì, ma a fin di bene.

Il Click Baiting rappresenta la pratica di scrivere titoli furbi, ammiccanti, sensazionali, il cui obiettivo è quello di  incuriosire l’utente e attirare click senza che dall’altra parte vi sia un contenuto di qualità.

Scrivere titoli sensazionali, curiosi, smaccatamente mendaci, allo scopo unico di attirare click, è esattamente come presentarsi a uno Speed Date con tonnellate di deodorante per nascondere il fatto che non ti fai un bagno da giorni.

Magari un appuntamento lo ottieni pure, ma quando la cosa si fa interessante, quando lei ti atterra finalmente addosso, ecco che scappa a gambe levate (frequenza di rimbalzo del 100%).

La domanda è:

cosa si ottiene veramente fornendo un’informazione approssimativa, fasulla, sensazionalistica?

Da un lato numeri, dall’altro la frustrazione dell’utente, e il suo esodo verso altri e ben più trasparenti lidi.

Mala tempora currunt per i contenuti in rete. E questo lo sappiamo. Ma pratiche come queste rasentano il raggiro e la truffa,configurandosi come quanto di più basso esiste in rete, quasi peggio dei banner promozionali che compaiono mentre navigo e nessuno mi ha chiesto nulla…

Al di là del Click Bait, di cui si parla ormai da anni, quello che salta all’occhio è che la qualità della stragrande maggioranza dei contenuti in rete resta ancor oggi un optional.

Una qualità da scovare grazie al nostro spirito critico e alla curiosità e voglia di approfondire, che dobbiamo necessariamente attivare per rimanere esseri pensanti.

L’onestà paga? Forse no in effetti. Però lato reputazione direi proprio di sì.

Se quindi volete “rimanere” nella rete e farvi riconoscere come azienda o come singolo andate avanti a leggere, diversamente ho un paio di spacciatori di link e qualche Ghostwriter senza scrupoli da presentarvi… e buona fortuna.

Siete ancora qui? Bene, procediamo!

La parola chiave in questo campo è Pertinenza. Pertinenza tra titolo, introduzione o descrizione, contenuto, landing page, risorsa, e chi più ne ha… ma pertinenza a tutti i costi.

  • ciò che promuovete deve essere pertinente con ciò che potete offrite
  • ciò che descrivete deve essere pertinente con ciò che andate ad approfondire
  • ciò che l’utente trova deve essere pertinente con ciò che sta cercando
  • ciò che raccontate deve essere pertinente con la vostra realtà aziendale o con la vostra persona

Il titolo resta la cosa più importante, insieme all’immagine correlata, quando si tratta di attirare naturalmente un click su un post try here.

Il titolo deve essere ben ragionato e può anche essere sensazionale se sensazionale è anche il contenuto. Il titolo deve saper incuriosire l’utente, attirarne l’attenzione e anticipare qualcosa di quello che troverà una volta cliccata la risorsa, ma non deve essere ingannevole. Deve salvaguardare il concetto di pertinenza.

Siate pertinenti e non ve ne pentirete. Perché un lettore soddisfatto è un lettore che ritorna.

La terribile logica dei voti nel mondo digitale

marco - 18/04/2016

<img class="aligncenter size-full wp-image-266" src="http://www hop over to this website.marcoandreani.it/wp-content/uploads/2016/04/voti.jpg” alt=”voti” width=”698″ height=”400″ srcset=”http://www.marcoandreani.it/wp-content/uploads/2016/04/voti.jpg 698w, http://www.marcoandreani.it/wp-content/uploads/2016/04/voti-300×172.jpg 300w” sizes=”(max-width: 698px) 100vw, 698px” />

Quando iniziai, nel 2008, a scrivere post su enotecaletteraria.it davo i voti ai vini che degustavo.

Ero un semplice lettore, lo sono ancora, e un (neo al tempo) assaggiatore ONAV, e sono ancora anche questo, con qualche bottiglia in più sulle spalle.

Avreste fatto bene a flagellarmi.

Per fortuna compresi subito che non ero (e non sono nemmeno oggi) nessuno per poter dare un voto o un punteggio a un vino.

La logica dei voti è di per sé agghiacciante, anche quando applicata da persone davvero competenti in un settore,

figuriamoci da individui “qualunque”. Oggi vedo con rammarico che il cancro dei punteggi c’è ancora, e tende ad allargarsi, favorito dalle nuove possibilità di espressione donateci dalla rete (Alleluia!).

Leggo quotidianamente post di individui che danno voti a vini, ristoranti, alberghi, e chi più ne ha…

senza aver alcun titolo per farlo, al grido dell’inutile e imbarazzante opinione o gusto personali.

Quello che vorrei dire a queste persone, soprattutto se hanno il privilegio di possedere un minimo di seguito, in rete come altrove, è di avere maggiore responsabilità verso chi li legge, considerato soprattutto che

l’opinione senza conoscenza, sostanza o specializzazione è e rimane materia da bar.

La critica è morta? Non lo so, di certo non è mai stata particolarmente simpatica o vicina al grande pubblico. Detto questo la critica “istituzionale” non è vangelo ma nemmeno è da condannare a tutti i costi.

Dietro una critica c’è sempre un uomo, con i suoi gusti, la sua personalità. L’unico vantaggio per chi legge, e deve farlo a sua volta con spirito critico e curioso, è che il critico di mestiere possiede gli strumenti per decifrare, meglio di altri, la materia della propria osservazione.

Dovrebbe quindi essere più autorevole del proprio lettore, in quanto dedica la parte fondamentale della sua esistenza all’oggetto delle sue analisi.

Mica cotica! Poi compito del lettore masticare e sputare a dovere…

Ogni volta che mi trovo davanti a una recensione affrettata, a un voto, a un punteggio dato da appassionati senza arte né parte, iniziano a prudermi i polpastrelli.

Vorrei poter salvare il lettore da questo flagello, dall’immenso pericolo generato dal qualunquismo, dalla banalizzazione, dall’inadeguatezza di un giudizio che può arrivare a influenzare quando non dovrebbe assolutamente farlo.

Alimentare la piramide dell’ignoranza è peccato capitale, ricordatelo.

Poi mi viene in mente la sequenza di “quel film”, apro Youtube e sorrido. Ogni volta immagino di sostituire la parola “cinema” con “digitale”, ma questa è un’altra storia…

Chi compra digital compra tempo

marco - 14/04/2016

tempo

Ci rifletto spesso, soprattutto mentre batto alla tastiera per rispondere a e-mail, redarre strategie, gestire campagne, stendere meeting report, stilare progetti, etc etc…

Ci penso quando faccio conference call (come si dice adesso) di 2 ore con i clienti, quando spengo Skype e rifletto su quanto ho appena ascoltato. Ci penso quando sono in riunione.

Ci penso perché a volte mi rendo conto che sono arrivato a metà giornata e mi sembra di non aver fatto nulla di concreto.

Eppure il lavoro è indiscutibilmente andato avanti. Non sono stato con le mani in mano a pensare al prossimo acquisto su Amazon, al fatto che è davvero tanto tempo che non vado al cinema, a quella volta che, e invece…

Tutto questo è tempo. La cosa più difficile da percepire e da trasmettere, la più complessa da vendere.

Eppure il Digital è soprattutto tempo. Tempo per immaginare, per ascoltare e comprendere, tempo per stendere idee e progetti, tempo per attivare azioni e strumenti, tempo per monitorare, per analizzare, per ridefinire, per aggiornarsi… tempo.

Dobbiamo quindi essere più bravi a comunicare chiaramente il concetto di tempo ai nostri clienti.

Lo dobbiamo a noi stessi, per dare il giusto e corretto valore a quello che facciamo, e lo dobbiamo alle aziende alle quali offriamo i nostri servizi, per fare in modo che percepiscano al meglio quello che stanno acquistando.

Esiste però un altro tempo ancora.

Nel digitale improvvisi solo se sei già un brand affermato, non se ti trovi all’inizio di un percorso. E un percorso, sorretto necessariamente da un piano strategico e commerciale, necessità di tempo per avviarsi, strutturarsi, raccogliere i primi risultati, raggiungere gli obiettivi sperati.

Se non consideri il tempo hai già fallito.

E non sto parlando solo del tempo per pensare, fare, discutere, confrontarsi, ma anche del famigerato e temuto Time to Market, che decide le sorti di un qualsiasi progetto digitale, anche il più bello, il più figo, il più innovativo.

Se non arrivi al momento giusto con il prodotto giusto per il pubblico giusto, o hai sprecato il tuo tempo o devi sperare che il mercato decida di darti ragione un domani.

Le domande da porsi sono pertanto le seguenti price of tamiflu.

La prima se la devono porre i Digital / Web Strategist, Social Media Manager, Account, Project, etc etc.

Siamo in grado di trasmettere ai nostri clienti l’importanza e l’incidenza del nostro tempo nell’economia generale delle azioni e delle attività necessarie al raggiungimento degli obiettivi prefissati?

La seconda se la devono fare le aziende.

Consideri con la dovuta attenzione il fattore tempo? E soprattutto, sarai pronto quando si presenterà l’occasione?

“Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” – Aldo Moro

L’E-mail Marketing ha ancora senso?

marco - 11/04/2016

email-marketing

Pensateci bene.

L’E-mail Marketing è il brutto anatroccolo del Digital Marketing.

L’invio di newsletter si presenta come quell’oscura attività che sembra costantemente antiquata ma che, se fatta con i necessari crismi, riesce a portare risultati concreti.

Il dubbio che mi attaglia è sempre lo stesso, da anni:

siamo davvero capaci di fare E-mail Marketing? Lo facciamo nella maniera corretta o, un po’ come per la favola della volpe e l’uva, alla fine lo snobbiamo perché, non mettendoci il necessario impegno, non otteniamo i risultati sperati?

Siamo forse perennemente distratti dalle sfavillanti e frivole luci dei Social Network o dalle manifestazioni più “giovani e dinamiche” del Digital Marketing?

Partiamo dal presupposto che l’e-mail sopravviverà ancora per lungo tempo.

Una casella di posta elettronica è necessaria per svolgere innumerevoli attività in rete. Senza un indirizzo e-mail siamo tagliati fuori dalla maggior parte delle attività digitali, dall’apertura di account sociali alla gestione di un sito o di un blog, fino alla pubblica amministrazione, agli acquisti online… etc etc.

L’e-mail è ancor oggi il passepartout digitale per eccellenza, l’immancabile cifra dell’identità digitale di ognuno di noi.

Se siamo in rete disponiamo pertanto di, almeno, una casella e-mail. Forti di questa certezza, se siamo un’azienda o un libero professionista, possiamo decidere di fare E-mail Marketing in maniera consapevole.

Una newsletter può avere scopi informativi, scopi marketing, scopi smaccatamente commerciali e, tendenzialmente, dovrebbe veicolare un messaggio alla volta e coinvolgere il destinatario.

Ma questo non vuole essere un post sulle Best Practice dell’E-mail Marketing. Di tutorial, guide, “le 10 cose da fare…”, è piena la rete e, raccontando più o meno tutti le stesse cose (trattandosi, nella maggior parte dei casi, di copia incolla), direi che non sbagliano di molto. Potete fidarvi insomma.

Le domande che serve porsi sono ben altre, prima di arrivare al “come fare”, e direi che sono più o meno le seguenti:

  • raccolgo regolarmente gli indirizzi e-mail delle persone / aziende con le quali entro in contatto?
  • le salvo in un ambiente sicuro, meglio 2 allineati, magari uno fisico e un Cloud?
  • le organizzo in maniera sensata in gruppi utenti distinti (clienti, fornitori, partner, dipendenti, etc)?
  • aggiorno costantemente il mio database?
  • Excel è mio amico?
  • effettuo controlli periodici per avere la certezza che il mio database rimanga qualificato?
  • ho uno strumento professionale (anche gratuito) per l’invio delle mie campagne?
  • so cosa voglio comunicare a queste persone?
  • ho contenuti da comunicare?
  • sono in grado di definire al meglio contenuti differenziati in base ai miei diversi gruppi di utenti?
  • pianifico i miei invii?
  • controllo le statistiche di aperture, letture, click, conversioni, etc, per migliorare la mia strategia di E-mail Marketing?
  • mi sono tutelato dotandomi di una Policy per la gestione delle anagrafiche e per la raccolta dei consensi online e offline?

Chiunque possieda risposte positive per ciascuna di queste domante è pronto a fare E-mail Marketing in maniera consapevole, tutti gli altri ci pensino ancora un po’.